Dopo quasi diciassette anni rimetto piede qui, da mamma. Ora sono il braccio che sostiene, la mano che accarezza, il petto che consola, la voce che mette paletti, l’abbraccio che calma. Eppure qui a sette anni, io bambina, sono venuta per la prima volta e il posto di mio figlio lo occupavo io, intimidita dalla maestosità del parco…. mai vista una cosa così fino a quel momento.
E allora mi è battuto il cuore per la paura di tornare troppo indietro con il tempo e provare quel senso di inafferrabile che solo la crescita di un altro essere umano ci dà. Il parco è cambiato, come lo sono io. Nuovi giochi, un nuovo approccio ai più piccoli, un maggior adeguarsi a questi tempi che cambiano e troppo sono cambiati. E l’emozione di vedere mio figlio emozionarsi nel fare i conti con la velocità che lo scompiglia, lo sbatte e lo rimescola da una parte all’altra. Urla a squarciagola, molla manubri e fa volare le mani, grida al cielo parole incomprensibili e corre di nuovo a mettersi in fila. Bagnato, sudato, inghiottito dal tunnel della frenesia di nuova adrenalina. Ancora e ancora e ancora. Riecheggiano, ora che è sera e la stanchezza ha preso il sopravvento, i ricordi più poderosi di sensi: si fanno spazio e non so dirvi se siano i più belli o quelli che il cervello ha registrato per primi… dico solo che la testa rimbomba ed è un rumore piacevole, forse come quando hai bevuto un bicchiere un più e senti che tutto potrebbe andare così, in maniera più serena, senza pensare troppo alle cose, senza aggrovigliarsi o soffermarsi ma solamente lasciar andare. Così, ora guardo mio figlio dormire e vorrei custodire in lui o per lui il senso del “lasciar andare”, del non fossilizzarsi sui meccanismi contorti dell’esistenza e di ricordarsi sempre che anche lui è stato bambino e ha corso senza senza se e senza ma per rimettersi in fila al suo gioco preferito. Ancora, ancora e ancora una volta.